In un comune dell’entroterra fanese c’è una ragazza di 15 anni nata in Marocco e da 6 anni in Italia. I genitori pretendono di educare la figlia secondo i rigidi dettami della religione islamica. La mamma non parla una parola d’italiano, non guarda la televisione, non si è assolutamente inserita nel contesto sociale e gli atteggiamenti della figlia le appaiono incomprensibili.
La figlia, invece, è cresciuta, si è integrata e vuole vivere l’adolescenza al pari delle sue amiche e compagne di scuola.
All’ennesima lite la mamma la minaccia di riportarla in Marocco o, ancor più grave, di ucciderla con le sue amni se continuerà a frequentare le sue amiche “puttane e drogate…”
Lei scappa, chiama l’amica del cuore e chiede aiuto. Sale su un autobus e la raggiunge. L’amica gli offre ospitalità, la conforta e la accompagna alla polizia municipale.
L’agente vista la situazione chiama i Carabinieri che immediatamente ricostruiscono le vicissitudini dell’adolescente. La ragazza vive questa situazione da anni. La mamma critica continuamente le sue abitudini di vita, non le comprende e la minaccia. Il padre talvolta assiste silenzioso altre avvalla l’operato della madre. La ragazza per “pensare ad altro” si produce autolesioni con una piccola lametta sul braccio. E’ piena di tagli, alcuni freschi altri cicatrizzati, segno di un malessere che perdura da tempo.
I Carabinieri coinvolgono i servizi sociali che si preoccupano di trovare una soluzione alloggiativa temporanea. I genitori vengono deferiti all’Autorità Giudiziaria per abuso di mezzi di coercizione e disciplina.
In atto un paziente lavoro da parte di psicologi ed assistenti sociali per avvicinare gradualmente le posizioni di genitori e figlia. Avviato il percorso, si segnala già una prima presa di coscienza da parte dei genitori apparentemente disponibili a rimettere in discussione alcune rigidità.
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